Una lettera di Giovanni Prodi

Roma, 7 febbraio 1989

All’on. Beniamino Brocca – a tutti i membri della Commissione.

 

Caro Presidente, cari Colleghi,

questo mio scritto non è per recare disturbo ai lavori della Commissione, ma , al contrario, per renderli più snelli togliendo di mezzo un intervento che altrimenti avrei dovuto fare – a scarico di coscienza – pur sapendo di ripetere cose che ho già detto troppe volte.

Più ho pensato ai lavori della Commissione, e più mi è parso chiaro che siamo partiti da un errore di fondo, anzi da uno stato di confusione che a torto abbiamo scambiato per il risultato di una mediazione. Prima ancora di parlare del biennio, avremmo dovuto discutere se era il caso di abbandonare la nostra tradizione culturale e pedagogica, che ha sempre puntato su coerenti progetti formativi quinquennali (o, eccezionalmente, quadriennali). Può darsi che non ci sentiamo più di assumere, come educatori, responsabilità di ampia portata; la giustificazione più diffusa è quella che fa leva sulla immaturità dei giovani e sulla loro incapacità di decidere del loro avvenire a quattordici anni. Al fondo c’è un nostro atteggiamento di rinuncia, che proiettiamo sui giovani: mettiamo avanti la loro immaturità, senza tener conto che, se non li condurremo a decidere, non li faremo mai maturare. Mi viene spontanea una riflessione: la nostra società dà ampie patenti di maturità ai giovani in fatto di sesso e di politica, e invece li bamboleggia quanto a carattere e a ragione: questo mi sembra un cattivo segnale.

Fra l’altro, quando decidiamo su progetti e curricoli di scuola secondaria, ragioniamo come se il contributi della nostra scuola media fosse pressoché nullo, sia quanto a cultura che quanto ad orientamento. Può esserci del vero in questo giudizio: lo strano è che non si pensi allora a mettere in piedi saldamente la scuola media, e se ne progetti solo un prolungamento, ampiamente ripetitivo, in un biennio. Anche qui domina la rassegnazione.

Mi pare inutile fare una critica ai lavori di Ostia: date le premesse, non poteva andare che così. Non dubito che i singoli gruppi di lavoro abbiano elaborato programmi moderni e tecnicamente buoni: ma se vi piace il prodotto finale “assemblato”, fortunati voi: non so che altro dirvi. Qualcuno invoca autorevoli tagli all’ “area comune” e marcate caratterizzazioni dei vari bienni: in realtà, questa è l’unica via per uscire dalla confusione. Ma allora è strano che non ci si accorga che si ritorna finalmente al punto da cui si doveva partire, cioè da una ragionevole e profonda riforma della struttura dei nostri quinquenni e quadrienni attuali, per renderli più aggiornati e seri, più culturalmente incisivi. Tutta la mole di lavoro svolta nelle sperimentazioni (spontanee ed assistite) in questi ultimi quindici anni non ha proprio servito a nulla? Non è forse vero che queste sperimentazioni hanno già demolito tanti feticci e tante illusioni che nella nostra Commissione sono ancora attuali (come l’isolamento dei bienni dai trienni successivi, il gioco delle opzioni, il mito dell’ “area comune”, ecc…)?

Per la riforma dei quinquenni, i consensi sarebbero molti, almeno su alcuni punti precisi: riordino e semplificazione del settore tecnico, con un certo riavvicinamento fra il settore tecnico e quello scientifico, rafforzamento dell’istituto magistrale (almeno fino al momento in cui prenderanno corpo i progetti di formazione universitaria dei maestri), rifondazione del liceo scientifico (che, dalla sua istituzione con la riforma Gentile, veramente scientifico non lo è mai stato). Io aggiungerei un liceo moderno – linguistico, che in una società democratica e varia può interessare una frangia particolare di giovani; per inciso, mi pare di poter affermare che l’attuale liceo scientifico assolve prevalentemente le funzioni di un tale “liceo moderno”, che non sono propriamente le sue. Naturalmente, occorrerebbe anche mettere mano al settore professionale facendo in modo che i giovani vi trovino una più solida preparazione umana e culturale. Ma sarebbe illusorio tentare di fare questo a scapito della componente operativa, dal momento che per molti giovani l’accesso alla cultura e alla razionalità si compie proprio attraverso l’operare concreto. (Sia detto per inciso: è proprio questa degenerazione libresca dell’operatività che ha vanificato l’educazione tecnica nella scuola media).

Un altro provvedimento, semplice ma di enorme importanza, riguarderebbe la conclusione degli studi: accanto all’esame di maturità, come ragionevole prova di cultura generale, occorrerebbe istituire un esame di ammissione alle facoltà universitarie. Il progresso che ne deriverebbe per l’innovazione didattica nella scuola secondaria e per l’orientamento dei giovani sarebbe enorme.

Insomma, a mio modesto parere, le cose importanti che possiamo fare per la Scuola Secondaria Superiore sono quelle più a portata di mano e più semplici. La soluzione dell’annoso problema della riforma sta, a mio parere, nell’abbandonare la retorica e nel fare poche cose sensate, con l’opportuna gradualità.

Mando a ciascuno un saluto cordiale con l’augurio di poter concludere questo lavoro con soddisfazione e serenità.

Giovanni Prodi

(Dipartimento di Matematica dell’Università di Pisa)