Il '68 italiano e la scienza

E' in uscita il numero 27/28 di "PRISTEM/Storia - Note di Matematica, Storia, Cultura" dedicato al racconto e all'analisi dell'impatto del '68 su alcuni settori del mondo scientifico italiano. Pubblichiamo in anteprima i saggi di Marcello Cini e Margherita Hack che compaiono nel volume.

 

 

C’era una volta L’ape e l’architetto

di Marcello Cini

 

1.

A chi ha meno di cinquant’anni forse il titolo di questo articolo non dice nulla. L’Ape e l’architetto era il titolo di un libro, pubblicato nel 1976 da un gruppo di fisici romani (del quale facevano parte Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria, Gianni Jona-Lasinio, oltre a me), che suscitò allora un dibattito molto acceso. Nel libro venivano esposte tesi poco ortodosse sul tema del rapporto fra il processo di crescita della conoscenza scientifica e il tessuto sociale circostante.

 Prendeva lo spunto – il titolo – da una frase di Marx1 nella quale, partendo dall’osservazione che “l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette in cera”, faceva rilevare che “ciò che fin da principio distingue il peggiore degli architetti dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera”.

Vedevamo in questo passo un’esortazione a non considerare la scienza come rispecchiamento passivo di una realtà data ma a vederla come intervento attivo dell’uomo sulla natura secondo un progetto. Il fine del libro – dicevamo nell’Avvertenza iniziale – è “il tentativo di comprendere nel suo stadio più evoluto, e perciò anche nel suo sviluppo storico, la funzione del sistema della ricerca in termini di quell’attività sociale umana che è l’appropriazione teorico-pratica della natura, ed entro ciò di comprendere il valore della scienza”.

 Il sottotitolo invece – Paradigmi scientifici e materialismo storico – collocava immediatamente queste tesi nel contesto politico e culturale di allora. Il primo riferimento può forse essere comprensibile anche ai meno anziani: il concetto di paradigma introdotto nel libro di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche2, allora pubblicato da poco, è entrato nell’uso comune degli storici e dei sociologi della scienza e, più in generale, nel vocabolario culturale. Rappresentava bene per noi – e tutto sommato rappresenta bene ancora oggi per me – la forma assunta in un dato momento storico dall’insieme delle conoscenze condivise da una particolare comunità disciplinare che si dedica al loro approfondimento e alla loro articolazione in direzioni diverse, senza metterne in discussione le fondamenta concettuali e formali. Meno comprensibile è invece il secondo riferimento, il materialismo storico. Non è certo questa la sede per discuterne, anche perché il concetto è ovviamente molto datato. Voglio solo ricordare che lo scopo del nostro discorso era duplice. In primo luogo il nostro approccio ci consentiva di polemizzare, dall’interno dell’area marxista, con la filosofia ufficiale del regime sovietico – il materialismo dialettico – che aveva condotto alle aberrazioni del lyssenkismo nella Genetica e delle scomuniche scagliate da Zdanov, ministro della cultura di Stalin, nel dopoguerra contro altre teorie scientifiche: dall’interpretazione di Copenhagen della Meccanica quantistica in Fisica a quella degli orbitali molecolari in Chimica organica. Ci permetteva anche di criticare i sostenitori del carattere assoluto delle categorie adottate dalla scienza per descrivere il mondo, così come la validità universale e astorica di un metodo scientifico assunto come criterio di demarcazione fra conoscenza scientifica e credenze più o meno soggettive.

 Non c’è dubbio che le categorie interpretative della dinamica di sviluppo della società capitalistica che utilizzavamo per analizzare le connessioni tra il tessuto sociale e il processo di crescita della conoscenza fossero improntate al linguaggio della tradizione marxista nel quale eravamo immersi ma è anche vero che il metodo marxiano da noi adottato (materialismo storico), in contrapposizione con quello engelsiano (materialismo dialettico), ci consentiva di dare forma alla nostra tesi di fondo secondo la quale le verità della scienza hanno al tempo stesso un contenuto oggettivo ancorato alla concreta realtà pre-categoriale del mondo circostante e una forma soggettiva – beninteso una soggettività collettiva esercitata secondo regole precise dalle istituzioni scientifiche socialmente riconosciute – che discende dalle categorie che, nel contesto sociale storicamente dato, gli scienziati adottano per rappresentarla.

 Si può ovviamente discutere in che misura e con quali modalità questo processo di categorizzazione tragga la sua ispirazione e i suoi stimoli, oltre che dalla problematica interna di una data disciplina, anche dalla variegata molteplicità di fenomeni, conflitti, interessi, valori che attraversano e animano il tessuto sociale nel momento storico considerato. E posso anche riconoscere che la nostra analisi, nel contesto politico del decennio a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, abbia eccessivamente semplificato il rapporto tra “scienza” e “capitale” saltando mediazioni importanti e stabilendo generalizzazioni magari eccessive. Rimane comunque il fatto che quella analisi ci permise di prevedere con precisione il fenomeno fondamentale di questo secolo: la crescente tendenza del capitale a spostare il peso quantitativo e qualitativo della produzione di merci dalla sfera dei beni materiali a quella dei beni immateriali. Vediamo meglio alcune tappe del cammino percorso.

2.

Già qualche anno prima dell’uscita del nostro libro, avevo maturato la convinzione che si stava profilando all’orizzonte una trasformazione radicale del modo di produzione capitalistico derivante da un mutamento del ruolo della scienza nel processo di produzione. Nel dicembre del ’68 si tenne all’Istituto Gramsci una riunione preparatoria per l’organizzazione di un convegno sui problemi della ricerca. Mi venne affidato l’incarico di stendere la parte generale della relazione introduttiva.

In essa riprendevo temi già introdotti in alcuni miei articoli pubblicati negli anni precedenti sulla rivista teorica del PCI, Il contemporaneo, rivisti alla luce delle recentissime esperienze del maggio francese e delle lotte studentesche. La tesi che la scienza non è neutrale vi veniva formulata e argomentata.

Entra in crisi – scrivevo – la concezione che considera la scienza e la tecnica strumenti neutrali di progresso della società, indipendentemente dai rapporti sociali, e che postula un processo di sviluppo scientifico che segue una propria dinamica interna, soggetta a proprie leggi, dinamica che può essere tutt’al più favorita od ostacolata dalla struttura della società, ma non alterata o determinata nella sostanza.

Deve essere chiaro tuttavia che l’affermazione che la scienza non è neutrale non ha niente a che vedere con posizioni di tipo zdanoviano, né propone arbitrarie estrapolazioni di leggi, tendenze di sviluppo, schemi interpretativi,  al campo delle scienze della società a quello delle scienze umane o di quelle della natura. Si tratta invece di riconoscere che la scienza non è soltanto un processo di soluzione di problemi già dati dalla realtà esterna all’uomo e alla società, ma soprattutto una continua formulazione e proposizione di problemi da risolvere, e che pertanto in questa fase essenziale dello sviluppo scientifico entrano non soltanto fattori intrinseci, ma anche fattori esterni alla scienza stessa.

Questa caratteristica si accentua naturalmente man mano che la scienza diventa sempre più “forza produttiva” immediata, non solo perché essa viene “strumentalizzata” ai fini produttivi, ma anche perché lo sviluppo della produzione in certe direzioni piuttosto che altre mette a disposizione della ricerca certi strumenti piuttosto che altri, e soprattutto perché la pressione sociale che si esercita sia nella determinazione delle scelte dei settori da sviluppare e degli investimenti da effettuare, sia nella formazione di una scala di valori di importanza e di prestigio fra le diverse branche della scienza, è conseguenza diretta della struttura di una data società, della sua sovrastruttura e dell’ideologia dominante.

 Questo tipo di analisi mi permetteva di cogliere non solo l’esistenza di una stretta connessione tra la nascente scienza dei calcolatori e la futura industria che ne avrebbe assicurato una diffusione di massa ma anche il ruolo determinante che quest’ultima avrebbe svolto nello sviluppo del capitalismo come sistema mondiale.

Nel corso della discussione, che seguì la presentazione del documento introduttivo, aggiungevo:

“Io sono abbastanza convinto che nei prossimi venti o trenta anni avremo uno sviluppo dell’industria dei calcolatori derivante dall’aumento del consumo privato del calcolatore, esattamente analogo a quello che è stato il consumo privato dell’automobile [...].

Questo sviluppo introdurrà forme di selezione ulteriore, di asservimento ulteriore, di competizione ulteriore, di imprigionamento dell’uomo in una logica sempre più inesorabile, dovute soprattutto al consumo privato. È chiaro che questa è un’industria che, se dal punto di vista economico può veramente dare uno sviluppo al sistema del tutto analogo a quello della motorizzazione privata, si presta a dare al singolo un consumo che lo asservisce, lo narcotizza, lo droga”3.

Certo, oggi giudico eccessivamente catastrofista questa previsione. Ma se si pensa che trent’anni fa Bill Gates aveva i calzoni corti e i calcolatori erano costosissime macchine giganti (mainframes) che soltanto poche istituzioni come il Pentagono o la Commissione per l’Energia Atomica potevano permettersi, il mio pronostico per il futuro è abbastanza azzeccato. A prescindere dalla valutazione di questo fenomeno, nessuno può negare che senza la rete dei computers personali non ci sarebbe la globalizzazione dei mercati e della produzione di questi ultimi anni e che, senza questo fenomeno di mondializzazione, il capitalismo contemporaneo sarebbe molto diverso.

 Otto anni dopo, ne L’Ape e l’Architetto, questa previsione veniva sviluppata e approfondita. Riporto qui alcuni stralci tratti dal saggio La produzione di scienza nella società capitalistica avanzata che riassumono il nodo delle nostre argomentazioni:

Marx poteva supporre, quando scriveva il Capitale, che nella produzione non materiale i fenomeni della produzione capitalistica sono così insignificanti, paragonati all’insieme della produzione, che possono essere completamente trascurati.

E proseguivamo:

Nella società capitalistica contemporanea la produzione capitalistica di beni immateriali in forma di merci ha invece raggiunto una notevole importanza. Non solo le invenzioni sono prodotte in forma di merce, ma anche una quantità rilevante di altra informazione relativa al processo produttivo (know-how, organizzazione industriale, management) o al consumo (marketing, pubblicità ecc.) viene prodotta capitalisticamente, ossia, per dirla in termini marxiani, da lavoratori produttivi (di plusvalore).

Per di più, è enormemente cresciuta l’informazione prodotta come merce che viene direttamente “consumata” dalle comunicazioni di massa (radio, TV, giornali riviste, dischi nastri ecc.) a quelle individuali (telefoni) dall’istruzione (anche se solo in parte), agli spettacoli.

La maggior parte di queste sfere di produzione sono assoggettate al modo di produzione capitalistico. Ciò vuol dire che diventa rilevante la quota di capitale complessivo che viene investita [...] con conseguente assorbimento di lavoratori salariati. A differenza di ciò che accadeva ai tempi di Marx, il loro salario è un investimento di capitale, non un consumo di reddito. La produzione è infatti destinata al mercato.

Per potere trarre profitto dalla produzione di merci immateriali il capitale è costretto dunque a introdurre un meccanismo di distruzione continua dei valori d’uso, anticipata rispetto al processo che rende gli oggetti materiali inutilizzabili per deterioramento fisico. Si creano dunque i presupposti per rendere quantitativa l’informazione e misurabile il suo consumo (condizione indispensabile per la sua trasformazione in merce).

Alla libera disponibilità per tutti gli interessati di una informazione che mantiene nel tempo il suo valore d’uso si sostituisce il consumo privato di una informazione che non è utilizzabile se non è consumata appena prodotta.

Osservavamo tuttavia che l’informazione è anche molto diversa dai beni materiali:

Dal punto di vista del valore d’uso essa può essere consumata indifferentemente da molte o da poche persone, senza che per questo ciascuno debba rinunciare a una parte maggiore o minore di ciò che riceve. In alcuni casi anche in passato, per ridurre l’informazione a merce cioè per attribuire ad essa un valore di scambio, si è dovuto impedire con artifici vari che essa potesse essere utilizzata da altri che non sia chi l‘ha acquistata [...]. Di qui protezioni legali che obbligano chi entri in possesso di una certa informazione a pagare al produttore il prezzo determinato oppure limitazioni che impediscono fisicamente a chi non abbia versato il prezzo corrispondente l’accesso agli strumenti che forniscono l’informazione stessa. [...] Il suo “valore di scambio” appare perciò assai meno legato al tempo necessario a produrla che al numero dei consumatori.

3.

A noi apparivano dunque già chiare allora quelle differenze fondamentali fra la produzione di merci materiali e quella di merci immateriali – sia nella sfera della produzione che in quella del consumo – che dal punto di vista del capitale tendono a essere negate. Trent’anni dopo Thomas A. Stewart, editor della nota rivista americana di economia Fortune, spiega bene in un libro intitolato Il capitale intellettuale4 che, dal punto di vista del capitale, non c’è alcuna differenza rispetto alla produzione delle merci materiali.

Il capitale si inventa infiniti nuovi modi per fare sì che non cambi il fatto fondamentale che sempre di produzione di merci deve trattarsi.

Questa straordinaria risorsa costituita dal brainpower collettivo […] da tutto quel materiale intellettuale (sapere, informazione, proprietà intellettuale, esperienza) può essere messa a frutto infatti per creare ricchezza. Chi la trova e la sfrutta vince […]. Vince perché l’economia di oggi differisce radicalmente da quella di ieri. Noi siamo cresciuti nell’Era industriale. Ma questa è tramontata, soppiantata dall’Era dell’informazione. In questa nuova era – invece – la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione – e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l’intrattenimento, la comunicazione, i servizi – sono diventati le principali materie prime dell’economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quel che compriamo e vendiamo. Il capitale fisso oggi necessario per creare ricchezza è un capitale fatto di conoscenza. 

 Dunque, la conoscenza viene costretta dal capitale – per così dire contro la sua natura di bene comune, la cui fruizione accresce il patrimonio di conoscenze di ognuno senza privarne gli altri – a diventare un bene scarso, disponibile soltanto a chi ha i soldi per comprarlo. Dal punto di vista del lavoro, invece, molto cambia. Nella fase della produzione delle merci materiali, nelle fabbriche capitalistiche del XX secolo, era infatti oggettivo, parcellizzato, quantitativamente misurabile come somma dei tempi di atti elementari successivi prestabiliti, compiuti dall’operaio tipo, indifferenziato (taylorismo). Nella produzione capitalistica di merci immateriali il lavoro non è invece riducibile a pura quantità. In ogni forma, anche la più semplice, di produzione di segni dotati di senso, c’è una componente individuale qualitativamente essenziale e non quantificabile in termini di tempo. Se la sinistra non coglie che nella fabbrica di oggetti l’origine del profitto sta nella quantità di lavoro salariato mentre nella fabbrica di segni sta nella sua qualità, perderà ogni capacità di rappresentare le aspirazioni e i bisogni dei lavoratori.

4.

In un recente libro5, Sergio Bellucci e io abbiamo analizzato la natura e le conseguenze della trasformazione del capitalismo fondato sulla produzione di merci materiali, iniziata a cavallo tra il XX e il XXI secolo, nel capitalismo della produzione di merci immateriali. La produzione immateriale, e in generale tutta la produzione nell’era della società della conoscenza, è caratterizzata da un ciclo totalmente diverso da quello delle merci materiali nel periodo industriale fordista. Le differenze sono molteplici.

Per prima cosa perché non ha né tempo, né luogo. Molti dei suoi componenti risiedono in maniera ubiqua in tutti i luoghi del conosciuto e si configurano, temporalmente, con un accumulo permanente che riguarda ogni interazione di informazioni e ogni elaborazione cosciente che avviene nei processi vitali. Il ciclo immateriale, inoltre, risulta essere innovativo in punti non secondari e sfugge agli schemi classici. Rappresenta, allo stesso tempo, sia la nascita di un circuito economico di nuovo tipo sia la costruzione della griglia di circolazione “del possibile”, delle idee, dei convincimenti, delle informazioni di massa presenti all’interno della società. Il ciclo cognitivo, a cui è legato il funzionamento delle strutture dell’industria della produzione di senso, è costantemente immerso sia nella vasta immensità delle “interpretazioni” soggettive dei messaggi, da parte di individui e di corpi sociali, sia dalle autoproduzioni di nuove “materie prime” da parte delle persone sottoposte agli input rappresentati dalle pressioni comunicative e informative. Non è un caso che mai quanto oggi i comportamenti, i gusti, le scelte, gli stili di vita siano monitorati istante per istante, trasformati in informazioni da vendere sul mercato per essere analizzate dai produttori di merci materiali e immateriali.

 Sul piano del valore d’uso della conoscenza il cambiamento è, se è possibile, ancor più sostanziale. La natura di “bene comune” della conoscenza risale – come è noto – addirittura a Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori della nazione che paradossalmente è oggi il baluardo più forte in difesa degli Intellectual Property Rights6

Se c’è una cosa – scriveva l’estensore della Dichiarazione d’indipendenza – che la natura ha reso meno soggetta di altre alla proprietà esclusiva questa è l’azione della capacità di pensare chiamata idea, che un individuo può possedere in modo esclusivo finché la riserva per sé; ma nel momento in cui è divulgata si fa inevitabilmente strada verso tutti e chi la riceve non può disfarsene [...]. Che le idee debbano liberamente diffondersi dagli uni agli altri nel mondo per l’istruzione morale e mutua e per il miglioramento delle loro condizioni [...] sembra che sia stato appositamente e benevolmente predisposto dalla natura. L’invenzione non può allora in natura essere soggetta alla proprietà.

 La definizione di merce immateriale è dunque autocontradditoria. È l’unica “merce” che, all’atto del suo consumo, non solo non viene a “deperire”, a finire e produrre scarti, ma produce altra materia prima, nuova e in relazione con la precedente, che moltiplica la materia prima a disposizione dell’industria di produzione di senso e della produzione della sfera cognitiva generale dell’umanità. I processi di globalizzazione stanno offrendo nuove forme di contaminazione culturale, di intrecci di significati e significanti, che sviluppano immaginarie frontiere nelle strutture di senso. La dimensione della rete planetaria produce un fattore di moltiplicazione

impensabile fino a pochi anni or sono, una moltiplicazione che allude a una capacità nuova che sembra emergere come un fattore adattativo di nuova specie. La sedimentazione culturale (tutte le conoscenze accumulate all’umanità nel corso della storia e disponibili al genere umano) e i processi di comprensione e socializzazione delle stesse idee, che le persone si fanno di queste nozioni accumulate, rappresentano un background gigantesco che viene messo in produzione attraverso i nuovi modelli di economia basati sull’informazione. Tutti i dettagli possibili, tutte le interpretazioni immaginabili, tutte le pratiche sperimentate e le interazioni tra di esse rappresentano un crogiuolo enorme dal quale emergono, prodotti, innovazioni, idee di servizi, nuove acquisizioni, attraverso un processo permanente e irreversibile.

 L’appropriazione privata di questo potenziale, enorme, bene comune – attualmente in corso a un ritmo sempre più veloce attraverso la pratica dei brevetti, dei marchi e delle licenze e l’estensione a macchia d’olio dei diritti di proprietà intellettuale (IPR) – riproduce, con una stringente analogia, la pratica della trasformazione della terra pubblica in appezzamenti privati nell’Inghilterra dei tre secoli che vanno dal XVI al XVIII.

 C’è tuttavia una differenza sostanziale rispetto alla recinzione (enclosure) delle terre comunali di quattro secoli fa e questa apre prospettive nuove alle possibilità di contrastare l’attuale appropriazione privata dei beni comuni non tangibili della mente. Mentre, secondo il luogo comune corrente tra gli economisti, i beni comuni materiali erano destinati a degradarsi inesorabilmente in quanto vittime della cosiddetta tragedia dei commons – l’eccessivo sfruttamento delle fonti (terre, acque, fauna, ecc.) che tutti usavano senza curarsi del loro possibile esaurimento, e l’assenza di investimenti intesi a ripristinarne la capacità produttiva perché nessuno se ne assumeva il carico – è chiaro che l’uso delle conoscenze comuni, a differenza dell’uso delle terre in comune, non ne produce il degrado.

Anzi, come abbiamo visto, esse si auto-alimentano e si auto-producono per un meccanismo di feedback positivo.

 La domanda che si pone è allora se sia possibile invertire questa tendenza, avviando processi di costruzione, di gestione e di fruizione di beni comuni immateriali sottraendoli gradatamente, a seconda delle situazioni locali e dei bisogni più urgenti, alla loro riduzione a merce da parte del capitale. Non si tratta di perseguire un disegno ideologico ma di prendere realisticamente e concretamente atto delle contraddizioni che travagliano il capitalismo odierno, da un lato spazzato da tempeste finanziarie incontrollabili che creano e distruggono enormi ricchezze di carta, ma travolgono al tempo stesso la vita di miliardi di uomini e donne in carne e ossa, e dall’altro dominato da un pugno di multinazionali che possiedono la maggioranza schiacciante delle attività dei settori chiave dell’economia mondiale: dall’alimentazione all’energia, dalla salute ai trasporti, dagli armamenti al tempo libero.

 Sono convinto che la contraddizione di fondo che ha caratterizzato il processo di accumulazione del capitale nell’era della produzione delle merci materiali – quella fra la necessità di assicurare una crescita illimitata alla produzione di merci e la spinta all’appropriazione privata della maggior parte possibile della ricchezza prodotta – assuma oggi un aspetto nuovo e potenzialmente dirompente con l’avvento dell’era della produzione delle merci immateriali. Come dimostra l’esempio della guerra in corso per la privatizzazione dei software dell’informatica, la privatizzazione della conoscenza entra ed entrerà sempre più in contraddizione con l’intrinseca natura di bene comune che la contraddistingue, soffocandone e distorcendone lo sviluppo e producendo proprio l’effetto contrario a quello che gli apologeti del mercato, più o meno in buona fede, si propongono. Non è certamente un obiettivo a breve scadenza, né di facile realizzazione. La strada è tutta in salita e richiederà tempi lunghi. Non si tratta più di conquistare il Palazzo d’Inverno. Quella strada è stata tentata ed è fallita. Ma nemmeno si parte da zero. Per certi versi la ricostruzione della sinistra a livello mondiale potrebbe avere aspetti simili, su scala planetaria, a quelli che ha assunto in Europa alla fine dell’Ottocento la nascita delle prime organizzazioni degli operai e dei braccianti: società di mutuo soccorso, cooperative, banche popolari e, successivamente, anche sindacati e partiti. Proviamo a discuterne.

 

Note 

1. K. Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1964.

2. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1966.

3. In Bollettino CESPE, dicembre1968, “Atti del Convegno Problemi della ricerca scientifica e tecnologica”.

4. T.A. Stewart, Il capitale intellettuale, Ponte alle Grazie, Milano 1999.

5. S. Bellucci, M. Cini, Lo spettro del capitale, Codice, Torino 2009.

6. La citazione è tratta da: E. Grazzini, L’economia della conoscenza oltre il capitalismo, Codice, Torino 2008.

 

Da “L’ape e l’architetto”

Nell’introduzione al volume “L’ape e l’architetto”, Marcello Cini ripercorre alcune fasi del dibattito sviluppatosi negli anni ’60 all’interno delle forze di sinistra sul tema della conoscenza e della pratica scientifica. Riporta anche brani di vari interventi, particolarmente significativi, che ripropongono oggi – a distanza di 40 anni – il linguaggio con cui le discussioni culturali e politiche venivano allora affrontate.

L’introduzione di Marcello Cini fa anche riferimento alle posizioni assunte da N. Bucharin. Un suo intervento era stato pubblicato nel volume del 1971 Science at the Cross-roads (trad. it. Scienza al bivio, De Donato, Bari, 1977) che contiene gli interventi della delegazione sovietica al Convegno di storia della scienza e della tecnologia tenutosi a Londra nel 1931.

“Si tratta invece di riconoscere che la scienza non è soltanto un processo di soluzione di problemi determinati, ma soprattutto una continua formulazione e posizione di problemi da risolvere, e che pertanto in questa fase essenziale dello sviluppo scientifico entrano non solo fattori intrinseci, ma anche fattori esterni alla scienza stessa. Questa caratteristica si accentua naturalmente man mano che la scienza diventa sempre più forza produttiva immediata, non solo perché essa viene “strumentalizzata” ai fini produttivi, ma anche perché lo sviluppo della produzione in certe produzioni piuttosto che in altre mette a disposizione della ricerca certi strumenti piuttosto che altri, e soprattutto perché la pressione sociale che si esercita sia nella determinazione delle scelte dei settori da sviluppare e degli investimenti da effettuare, sia nella formazione di una scala di valori di importanza e di prestigio tra le diverse branche della scienza, è conseguenza diretta della struttura di una data società, della sua sovrastruttura e dell’ideologia dominante.”

(da un intervento di M. Cini all’Istituto Gramsci del dicembre ’68)

Soyez raisonnables demandez l’impossible significa, in termini politici, comprendere che non solo la cosiddetta “razionalità economica” ma la stessa pretesa “razionalità scientifica” si identificano oggi con la logica irrazionale del capitalismo.”

(Ibidem)

“E in effetti la produzione scientifica è un’attività umana, e in quanto tale ci aspettiamo che risulti storicamente determinata e realizzabile in termini di relazioni, cause ed effetti. Essendo poi un’attività umana particolare e specifica, essa non è comprensibile di per sé, ma solo quando la si analizzi insieme a tutte le attività umane di un dato periodo storico, e la si confronti con attività simili di altri periodi storici. In altre parole anche la scienza diviene comprensibile solo se riferita alla totalità dell’operare degli uomini.”

(dall’intervento di G. Jona-Lasinio al Convegno della SIF, Ferrara, 1975)

“Il soggettivismo di classe delle forme di conoscenza non esclude in nessun modo il significato oggettivo della conoscenza: in una certa misura la conoscenza del mondo esterno e delle leggi sociali è posseduta da ogni classe, ma i metodi specifici di concettualizzazione, nel loro progredire storico, condizionano in vario modo il processo di sviluppo dell’adeguatezza del concetto, e l’avanzare della storia può condurre a un metodo di concettualizzazione tale da divenire una costrizione alla conoscenza stessa. Questo accade alla vigilia della distruzione di un modo di produzione dato e dei suoi rappresentanti di classe”.

(N. Bucharin, “Teoria e prassi dal punto di vista del materialismo dialettico” in AA.VV., Scienza al bivio, op. cit.)

 

Il mio ’68

di Margherita Hack

 

Il ’68 è stato molto importante per la ricerca astronomica italiana perché è stata la molla che ha fatto fiorire la moderna ricerca astrofisica ed è anche stato la dimostrazione di quanto sia importante la libertà di ricerca nello stimolare l’iniziativa dei ricercatori. Per rendersene conto è necessario fare una breve storia dell’Astronomia italiana dal 1800 a oggi.

 L’Astronomia italiana nel secolo XIX ha dato importanti contributi a livello internazionale. Basta ricordare che il primo gennaio del 1801 un astronomo italiano, Giuseppe Piazzi, scoprì il primo di un’affollatissima famiglia di oggetti celesti – il pianetino Cerere – situato proprio fra Marte e Giove, a quella distanza dove, secondo la legge empirica di Titius-Bode, ci sarebbe dovuto essere un pianeta. Nella seconda metà dell’800, Giovanni Battista Donati utilizzò la nuova tecnologia spettroscopica per lo studio di una quindicina di stelle e dopo di lui Angelo Secchi iniziò lo studio sistematico degli spettri stellari. Fece la prima classificazione di spettri stellari, intuendo che era la temperatura la principale causa delle loro diverse caratteristiche, e si dedicò allo studio spettroscopico del Sole insieme ai suoi allievi L. Respighi e P. Tacchini. Inoltre pochi sanno che il più antico giornale internazionale di Astrofisica al mondo è stato Le Memorie della Società degli Spettroscopisti Italiani fondato nel 1872. Infine, vanno ricordate le numerose osservazioni di Marte da parte di Giovanni Schiaparelli durante le due opposizioni del 1877-79 e del 1881.

 Nella prima metà del ’900, quando si assiste alla nascita della Fisica moderna con la Fisica quantistica e la Relatività, e lo studio fisico dei corpi celesti tramite la spettroscopia diventa il principale campo di ricerca astronomica, in Italia si ha quasi un regresso rispetto al secolo precedente. I dodici osservatori astronomici – Torino, Milano, Padova,Trieste, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Teramo, Catania, Palermo e Carloforte – erano tutti diretti da matematici o cultori di Meccanica celeste, con l’unica eccezione di quello di Firenze diretto a partire dal 1921 da un fisico (Giorgio Abetti). In questi osservatori, che dipendevano direttamente dal Ministero della Pubblica Istruzione e rimanevano indipendenti dalle Università (con l’eccezione di Bologna e Catania), si svolgevano esclusivamente ricerche di Astronomia classica, che ignoravano completamente le ricerche astrofisiche. Solo a Firenze Giorgio Abetti diede grande impulso alle ricerche di Fisica solare e fece costruire la torre solare. La separazione dall’Università e il concentrarsi su ricerche ormai obsolete non era certo il modo migliore per attrarre i giovani. Inoltre gli osservatori erano Istituti monocattedra in cui il direttore aveva praticamente poteri assoluti, non era tenuto a discutere i programmi di ricerca con i suoi collaboratori né a tenerli informati sulle disponibilità finanziarie. Fu solo agli inizi degli anni ’40 che l’Università di Padova, memore delle ricerche che Galileo aveva iniziato proprio a Padova, fece costruire quello che per allora era un grande telescopio, un riflettore da 122 cm, piazzato nella succursale di Asiago. Era uno strumento ideale per ricerche di Fisica stellare ma che cominciò a essere sfruttato a pieno solo all’inizio degli anni ’50 quando un fisico di Arcetri, Guglielmo Righini, iniziò una collaborazione con Asiago e poi alla fine degli anni ’50 quando un altro fisico, Leonida Rosino, assunse la direzione dell’osservatorio.

 Subito dopo la guerra, gli unici luoghi in Italia in cui si facevano ricerche di Astrofisica erano l’Osservatorio astrofisico di Arcetri a Firenze, quello di Asiago e quello di Merate, succursale dell’Osservatorio di Brera, dove c’era un riflettore di un metro di diametro e dove aveva operato per breve tempo il fisico Livio Gratton, poi emigrato in Argentina. Dopo la sua partenza, anche i suoi allievi – borsisti precari – scomparvero e il telescopio restò inutilizzato, fino al 1955 quando mi trasferii a Merate, proprio per la possibilità di disporre di uno strumento più adatto alle mie ricerche di Fisica stellare di quelli di cui disponevo ad Arcetri.

 Qualcosa nel panorama di Astrofisica italiano cominciò a cambiare durante gli anni ’60, quando a Padova Rosino dette inizio a una proficua collaborazione con Nicolò Dalla Porta che, dal suo campo, la Fisica delle particelle, tornò a quelli che erano stati gli interessi giovanili, l’Astrofisica. A Firenze Guglielmo Righini continuava l’opera iniziata da Abetti, io assumevo la direzione dell’Osservatorio di Trieste, Mario Gerolamo Fracastoro quella di Catania e poi quella di Pino Torinese e altri due allievi di Abetti, Mario Rigutti e Giovanni Godoli, diventavano direttori degli osservatori di Napoli e Catania. Noi fisici eravamo ormai la maggioranza ma gli osservatori, sia per la loro storia passata che per la separazione dall’Università, non attraevano i giovani e quindi scarseggiavano di nuove leve. Quelli che erano già nei ruoli degli osservatori erano ormai abituati a vivere isolati in quelle chiuse parrocchie che erano gli osservatori diretti dai classici “baroni”, spesso frustrati e senza interazioni con Istituti dove si faceva ricerca moderna.

 Le agitazioni e le manifestazioni sessantottine contagiarono anche gli astronomi. I ricercatori spontaneamente, e in parte per suggerimento di Mario Rigutti, decisero di fondare un’associazione – l’ANRA (Associazione Nazionale Ricercatori Astronomia) – a cui noi più giovani cattedratici aderimmo subito. Cominciarono così numerose riunioni in cui si discuteva della necessità di dare agli osservatori una struttura più democratica e mezzi ai giovani per incontrarsi e discutere di programmi moderni di ricerca e ottenere borse di studio all’estero. Dopo alcune riunioni, a cui invitammo anche alcuni membri del Comitato Scienze Fisiche del CNR, questo decise di istituzionalizzare la nostra associazione trasformandola in Gruppo Nazionale Astronomia (GNA). Sebbene il GNA abbia avuto sempre pochi fondi, è stato di importanza essenziale per la rinascita dell’Astrofisica in Italia. Prima di tutto, ci demmo una struttura democratica con settori di ricerca – Fisica stellare, Fisica extragalattica e Cosmologia, Fisica del sistema solare, Tecnologie astronomiche – a cui i ricercatori aderivano a seconda dei loro interessi, eleggendo per ciascun settore un consiglio formato da cinque esperti. Questi esaminavano i programmi di ricerca presentati e decidevano le assegnazioni di fondi in base alla qualità e alle disponibilità.

 Ogni Istituto eleggeva un responsabile dell’unità di ricerca che vigilava perché i fondi assegnati all’Istituto, ma etichettati per quella particolare ricerca, non fossero utilizzati in altro modo dal direttore dell’Osservatorio (cosa qualche volta tentata da qualche incallito barone). Il consiglio scientifico del GNA formato da tutti i responsabili delle unità di ricerca, dai responsabili dei consigli di settore e da un rappresentante dei ricercatori e di uno dei tecnici eletti dalla base stabiliva la divisione dei fondi per settore, in base ai programmi accettati, e i settori esaminavano anche i risultati delle ricerche da essi finanziate.

 La struttura permise ai giovani di potere organizzare incontri fra coloro che avevano interessi simili, di discutere dei programmi e della loro attuabilità, di creare gruppi spontanei di ricercatori appartenenti a diversi istituti, di organizzare convegni in cui esaminare criticamente i risultati. Tutto questo può sembrare l’ovvia procedura di ogni comunità scientifica ma per la maggioranza degli astronomi italiani, fino ad allora isolati nei loro osservatori, con pochi o nessun contatto con l’esterno, portò al fiorire di idee, di discussioni animate e dette anche a molti la possibilità con modeste borse di studio di trascorrere alcuni mesi presso Istituti europei e americani in cui si faceva ricerca avanzata.

 In quegli anni stava anche nascendo la ricerca astronomica dallo spazio. Alla fine del’68 fu lanciato con successo il primo satellite della NASA per lo studio delle stelle nell’ultravioletto, OAO 2, e nel 1972 il TD1 dell’ESA. Nel ’72 la NASA lancia il primo satellite per lo studio di spettri ultravioletti ad alta risoluzione, OAO 3 - Copernicus, e nel ’78 NASA e ESA mettono in orbita IUE. Non solo il GNA permise di preparare la comunità italiana al miglior utilizzo di questi satelliti ma, poiché il tempo di osservazione disponibile era molto inferiore a quello richiesto, ricercatori aventi programmi simili erano invitati a collaborare. Questo fece sì che i nostri giovani ricercatori si trovassero a far parte di gruppi internazionali, spesso insieme ai maggiori esperti del campo, e ciò ha contribuito moltissimo a far crescere le loro competenze, la loro iniziativa e il loro entusiasmo. Furono molti i programmi di ricercatori italiani accettati dal comitato scientifico di IUE (un acronimo che significa International Ultraviolet Explorer), addirittura il 30% del totale, tanto che i colleghi stranieri lo avevano ribattezzato Italian Ultraviolet Explorer. Da notare che anche le pubblicazioni di ricercatori italiani accettate su riviste internazionali, relative a osservazioni fatte con IUE, rappresentavano il 30 % del totale.

 Altri satelliti per le alte energie o per l’infrarosso non ebbero altrettanta entusiastica accoglienza da parte degli astronomi, probabilmente perché lo studio dell’ultravioletto era l’immediata prosecuzione dello studio del visibile, di loro tradizionale competenza, mentre alte energie e infrarosso sono rimasti ancora per qualche tempo di stretta competenza dei fisici. Ma la rivoluzione del ’68 toccò finalmente anche la struttura autocratica degli osservatori astronomici e le resistenze dei direttori. I funzionari del Ministero della Pubblica Istruzione che si occupavano degli osservatori astronomici attribuivano i fondi per il funzionamento e la ricerca, come pure i posti di ricercatori e di tecnici, in base alla tradizione. Osservatori che una volta erano stati grandi e attivi, ed erano poi decaduti, prendevano le fette più grosse della torta mentre ad altri in pieno sviluppo toccavano le briciole. Importante poi era il peso politico dei direttori, la loro capacità di pressione sui funzionari, proporzionale al numero di “passeggiatine” al Ministero. Evidentemente non si poteva andare avanti così e noi sessantottini, insieme ai più aperti dei colleghi più anziani (come Righini, Rosino, Dalla Porta e Fracastoro) riuscimmo a fondare un consiglio informale di professori di Astronomia (CAPA= Consiglio Allargato Professori Astronomia) esteso a un rappresentante dei ricercatori, che si offerse quale organo di consulenza ai funzionari del MPI, i quali furono ben contenti di accettare le nostre decisioni liberandoli dalle pressioni a cui venivano continuamente sottoposti dai direttori degli osservatori. Nel CAPA discutevamo animatamente per stabilire i criteri di assegnazione dei fondi e del personale in base all’attività scientifica e alle necessità di sviluppo, documentate dalle pubblicazioni e dalle varie iniziative scientifiche. Fu così che osservatori piccoli e da decenni “ in sonno” quali quelli di Catania, Trieste, Napoli e Torino poterono crescere, svilupparsi e attrarre neo-laureati in Fisica, anche dall’estero.

 È grazie all’attività del CAPA che nacque il CRA (Consiglio Ricerche Astronomiche), organo ufficialmente riconosciuto dal Ministero, che permise una profonda modifica delle strutture degli osservatori dotandoli di un Consiglio direttivo (con rappresentanza di ricercatori e personale tecnico e amministrativo) che affiancava il direttore. Inoltre stabiliva l’assegnazione di personale amministrativo, di segreteria, di bibliotecari mentre, fino ad allora, gli osservatori avevano solo astronomi e tecnici e per l’amministrazione dovevano chiedere al buon cuore della locale Università di distaccare un amministrativo. Inoltre gli osservatori poterono godere in questo periodo di una grande autonomia. Tutte queste circostanze hanno dato un grandissimo impulso allo sviluppo di un’eccellente ricerca.

 Oggi è grazie al ’68, e all’impulso che questo movimento ha dato alla nascita del GNA, del CAPA e poi del CRA, che la ricerca astronomica italiana è di ottimo livello e molti ricercatori italiani occupano posizioni importanti nei vari consigli dell’ESA, dell’ESO e altri organismi internazionali.

 L’epoca del CRA è stata l’età d’oro per lo sviluppo della ricerca astronomica. Ma il CRA non aveva personalità giuridica e pertanto non poteva gestire in proprio le grandi imprese e, in particolare, le collaborazioni internazionali. Per esempio, la realizzazione del telescopio nazionale Galileo TNG situato alle Canarie è stata gestita dall’osservatorio di Padova e il grande telescopio binoculare LBT in Arizona è stato gestito dall’osservatorio di Arcetri. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto la creazione di un Istituto Nazionale di Astrofisica INAF che, sul modello dell’INFN che ha così bene operato, si sperava potesse rappresentare un ulteriore salto di qualità per l’organizzazione della ricerca astrofisica. Purtroppo, almeno per ora, l’INAF è stato una grossa delusione, un carrozzone burocratico che ha tolto autonomia agli osservatori, rallentandone l’attività, e che spende per l’amministrazione e la gestione quantità ingenti di denaro che avrebbero potuto essere destinate alla ricerca.