1. Rettore lungimirante

Il 4 settembre del 2000 moriva Antonio Ruberti: aveva 73 anni, era nato ad Aversa il 24 gennaio 1927. La sua scomparsa privava il mondo scientifico italiano di un riferimento importante, non solo per le sue benemerenze come ricercatore nel settore dell’ingegneria dei sistemi ma anche per le sue capacità progettuali e la caparbia determinazione nel campo della politica scientifica. Ed è soprattutto in questa prospettiva che la rievocazione storica deve muoversi in un contesto come quello di Scienza&Società.

Anche in questa prospettiva, comunque, non è inutile ricordare le tappe salienti della sua carriera di ricercatore per toccare (sia pure solo con la mente) la realtà di un’Italia normale, dove si poteva iniziare presto una carriera di ricerca (Ruberti lo fece presso la Fondazione Ugo Bordoni) e a 35 anni vincere un concorso come professore ordinario (fu chiamato alla cattedra di Controlli automatici della Facoltà di Ingegneria di Roma nel 1962). Certo questo promettente avvio era legato al suo notevole valore scientifico, ma non era un caso unico: l’Italia di allora non doveva rispecchiarsi in quel coacervo gerontocratico che è la sua classe dirigente di oggi.

Alla fine degli anni Sessanta, Ruberti fondava l’Istituto di automatica dell’Università di Roma (poi divenuto il Dipartimento di Informatica e sistemistica a lui intitolato) e il Centro per i sistemi di controllo e il calcolo automatico del CNR (poi trasformato in Istituto di analisi dei sistemi e informatica). Era un uomo carismatico, capace di profondere in ogni iniziativa “un impegno unico, moltiplicatore di tempo e di energia umana, con la sua capacità di motivare le persone e suscitare entusiasmo e con una spinta propulsiva mai attenuata negli anni”. Così lo descriveva uno dei suoi più antichi allievi, Fernando Nicolò, commemorandolo nell’Aula magna della “Sapienza” il 6 settembre 2000, a soli due giorni dalla scomparsa.

Nel 1973 Ruberti saliva il primo gradino del suo “cursus honorum”, divenendo preside della Facoltà di Ingegneria di Roma, per poi essere eletto nel 1976 rettore di quello che era allora ed è ancor oggi il più grande Ateneo italiano. Ruberti rimase rettore per ben 11 anni. Per comprendere il difficile contesto in cui si trovò a operare è necessario ricordare che nel dicembre 1969 era stato liberalizzato l’accesso all’Università, abolendo le limitazioni imposte da Gentile nel 1923 che aprivano le porte di tutte le Facoltà soltanto a chi aveva frequentato il Liceo classico, limitando o vietando gli studi universitari per chi aveva intrapreso altri percorsi formativi nella secondaria superiore. Negli anni Settanta il numero degli studenti universitari era quindi aumentato di un ordine di grandezza: con una parola forte si parlava di Università “di massa”, contrapposta allo studio universitario come privilegio di pochi. Perché questo studio potesse effettivamente divenire un fattore di crescita individuale e di sviluppo sociale occorreva però adeguare l’organizzazione, la dotazione finanziaria e gli organici dell’Università al fine di evitare che si trasformasse in un “ammortizzatore sociale di massa” come purtroppo è poi in parte avvenuto. Ruberti si trovò quindi alle prese – come preside e poi come rettore – con tutte le difficoltà che il mondo universitario stava vivendo per fronteggiare questa situazione.

L’altra questione scottante era rappresentata dalla situazione istituzionale del sistema della ricerca e dal ruolo che l’Università avrebbe dovuto svolgervi. Le Università, all’epoca, erano organi periferici del Ministero della Pubblica Istruzione e la loro vita, a partire dalla distribuzione delle risorse e dalla istituzione di corsi, facoltà e cattedre, dipendeva in ultima istanza dal Ministero stesso. Il modello di riferimento era ancora costituito da Facoltà articolate in Istituti, che erano spesso piccole strutture “monodisciplinari” rette da un docente che era al tempo stesso titolare della cattedra più importante e direttore e dal quale dipendevano tutte le risorse umane, finanziare e logistiche afferenti all’Istituto stesso. Fino alla guerra gli istituti “monodisciplinari” erano stati anche, con poche eccezioni (in particolare a Roma), istituti “monocattedra” nei quali cioè il direttore era l’unico professore ordinario presente. La carriera universitaria partiva dalla “libera docenza”, requisito indispensabile per poter avere dalla facoltà l’affidamento di corsi come “professore incaricato”. Altra figura presente negli istituti universitari era quella dell’assistente, che collaborava con il professore ordinario in una relazione di forte soggezione. Tutte le funzioni di governo dell’università, nonché la gestione dei concorsi, spettavano ai professori ordinari. Il loro potere era quasi privo di contrappesi, a parte il continuo negoziato con il Ministero per l’assegnazione delle risorse. Era l’Università dei “baroni”: con questa definizione si voleva sottolineare il connotato quasi feudale delle relazioni all’interno del mondo accademico e la facilità degli abusi.

In assenza di riforme, la necessità di incrementare gli organici della docenza universitaria si tradusse in una proliferazione difficilmente controllabile di posizioni giuridicamente incerte che solo nel 1980 trovò una sistemazione con l’articolazione della carriera in tre fasce e una serie di aggiustamenti transitori che avevano lo scopo di sanare le numerose situazioni di fatto che avevano dato luogo alla formazione di diritti acquisiti o presunti tali. La legge del 1980 apriva anche al graduale superamento degli “Istituti”, e alla costituzione di “Dipartimenti”, cioè di più ampi aggregati di persone e di risorse finanziarie e logistiche, più adeguati al modo in cui si era evoluta la realtà della ricerca scientifica. Tuttavia, per non investire immediatamente il cuore del potere accademico, i Dipartimenti avevano competenza solo nell’ambito della ricerca mentre restava dominio delle Facoltà ogni decisione che potesse avere riflessi sul resto della vita universitaria (a partire dai concorsi). La possibilità di istituire i Dipartimenti era richiesta soprattutto dalle Facoltà scientifiche mentre quelle umanistiche e quelle professionali, che costituivano una componente maggioritaria, mantennero più a lungo l’organizzazione tradizionale. Ad Antonio Ruberti toccò in sorte, come rettore, di gestire l’adeguamento dell’Università di Roma al nuovo modello legislativo, cosa che fece con successo e con un consenso del corpo accademico, chiaramente manifestato nel ripetuto rinnovo del mandato rettorale. Con la liberalizzazione degli accessi e la nuova struttura del corpo docente, l’Ateneo romano si avviava a superare i centomila studenti e contava i professori non in decine o in centinaia ma addirittura in migliaia. Quegli anni erano resi difficili pure dalle importanti trasformazioni sociali e culturali in atto nel Paese e da una situazione politica condizionata dal terrorismo e dalla strategia della tensione.

Deve essere stata quell’esperienza a far maturare in Ruberti alcune convinzioni che hanno poi guidato il suo operato come titolare di importanti incarichi politico-istituzionali. In primo luogo la necessità di un centro istituzionale propulsore della politica della ricerca e insieme l’esigenza di una diversa organizzazione dell’Università: autonomia dal governo, maggiore responsabilità degli Atenei, strutture capaci di riconoscere e premiare il merito. Ruberti coltivava inoltre l’idea che fosse indispensabile, in particolare nella situazione italiana, promuovere la diffusione della cultura scientifica. Lo scopo era duplice: cambiare l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso il mondo della ricerca e verso le discipline scientifiche e ampliare il numero dei giovani interessati a dedicarsi a questo tipo di studio.